Il tema del potere digitale è uno degli argomenti trattati con maggior interesse da quanti si occupano del web: nel dibattito attuale intorno ai media digitali, questo aspetto ha assunto una rilevanza consistente. Va tuttavia rimarcato che gran parte dell’attenzione è rivolta soprattutto agli aspetti politici o ideologici della questione mentre minor rilievo è destinato agli aspetti organizzativi, relazionali e tecnologici, ai loro intrecci sul piano comunicativo/progettuale e ai possibili sviluppi delle loro dinamiche di co-determinazione.
E’ lungo la traiettoria di queste contingenze che è possibile cogliere le forme di legami emergenti che intrecciano gli aspetti organizzativi, le affordance tecno-mediali e i bisogni attuali dei cittadini/utenti, colti sullo sfondo di relazioni reticolari animate da dati digitali. Gli algoritmi sono dappertutto, non solo nei laboratori di biotecnologia. Non c’è campo della vita quotidiana, dalla circolazione dei treni al funzionamento dei semafori, dalle ricerche agli investimenti in Borsa che non sia governato da formule matematiche. Alcuni sono famosi, come “PageRank”, il sistema di classificazione delle pagine web che ha fatto di google il motore di ricerca più usato al mondo. Ma gli algoritmi non si limitano a svolgere compiti semplici, stanno diventando sempre più complessi, potenti, capaci di imparare e di diventare autonomi. Fino a pochi anni fa tutti i dati di un algoritmo potevano stare in un computer e in un luogo fisico ben preciso. Oggi le masse di dati prodotte da Google, Facebook, Twitter, che contengono informazioni fondamentali, sono così enormi da essere distribuite su una rete vastissima di server collegati in rete.
“Per lo sviluppo di nuovi algoritmi” spiega Massimo Marchiori, matematico e informatico italiano che insegna all’Università di Padova, uno dei padri dell’algoritmo di Google, “è fondamentale che i dati siano open, disponibili a tutti. Penso a quelli raccolti dall’Istat o dalle amministrazioni in Italia, che dovrebbero essere considerati un bene comune e forniti dagli studiosi, tutelando la privacy del singolo, per realizzare modelli a beneficio di tutti”. Se ciò non avvenisse, il rischio è la tecnocrazia: un mondo governato da un’elite depositoria del sapere tecnologico e dei dati per alimentarlo. Il problema non è tanto che gli algoritmi rubino posti di lavoro, perché l’uomo sarà sempre necessario per controllare le macchine. Piuttosto, dice Luca Chittaro, docente dell’Università di Udine ed esperto di interazioni uomo- macchina, “affidando un compito a un algoritmo, spostiamo il problema altrove, perché si introduce un nuovo tipo di errore, quello del programmatore. Col rischio di bug, errori di programmazione, o di modelli troppo semplificati che finiscono per fallire”.
Nel frattempo una società di Chicago, la Narrative Science, ha creato algoritmi in grado di scrivere articoli. E ci sono formule capaci di scrivere libri in pochi minuti ricavando le informazioni dalla rete, come quelli dell’economista americano Phil Parker o della casa editrice combinatoria Nimble Books. Come ogni rivoluzione, anche quello della proliferazione dei dati digitali apre una porta che va in due direzioni. Quella più nota riguarda le promosse di un mondo più efficiente a misura di desideri. E quella meno nota, ad esempio: quanti intermediari ci sono dietro le semplici azioni che si compiono online? Negli Stati Uniti ha fatto discutere il caso di una nota catena di supermercati che - come ha intitolato la rivista Forbes- ha algoritmi capaci di scoprire se una sua cliente è incinta prima che lo venga a sapere suo padre. E cioè, incrociando i dati sugli acquisti delle clienti, il software riesce a dire quante possibilità ci sono che una ragazza sia in dolce attesa.
L’Unione Europea è scesa in campo con una direttiva, tuttora in discussione al Parlamento, per fissare le regole sulla conservazione dei dati in tutti i Paesi europei, chiarendo i diritti degli utenti (accesso e modifica garantita sempre) e i doveri delle società hi- tech (consenso preventivo, divieto di cessione a terzi). Nel frattempo, sottolinea Juan Enriquez, direttore del Life Science Project alla Harvard Business School, dobbiamo essere consapevoli: ogni volta che scriviamo un tweet, facciamo una ricerca su Google, visitiamo Amazon, creiamo una sorta di tatuaggio elettronico che difficilmente potremo cancellare: una volta immesse non sapremo più dove le correnti trasporteranno le nostre informazioni.
Come l'invenzione della stampa ha portato prima al protestantesimo e poi all'illuminismo, così la connettività provocherà cambiamenti culturali e sociali di immensa portata nelle forme del potere. Come questi si declineranno, tuttavia, solo la “rete” lo sa. Intanto Google e gli altri colossi della tecnologia Usa sono impegnati in una campagna per screditare l'International Telecommunication Union, l'agenzia dell'ONU che nel dicembre 2012 ha proposto di far pagare ai fornitori di contenuti una tassa a beneficio dei gestori locali delle infrastrutture.
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