lunedì 14 dicembre 2015

Il Prosumer tra consumo critico e assoggettamento alla marca

di Dalila Mutone

Come sottolineato dall'economista Salvatore Vicari (2001) e non solo, lo sviluppo delle tecnologie avvenuto in epoca moderna, ha contribuito a ri-equilibrare i rapporti di forza tra produttore e consumatore, un tempo costituito da una totale "asimmetria informativa".
Nello specifico, Internet ha accresciuto il potere del consumatore tramite:
l'Accesso all'informazione: il consumatore ha a disposizione una quantità senza precedenti di informazioni, che lo supportano nel processo di decisione;
la Visione globale: il consumatore ha la possibilità di controllare i prezzi dei prodotti e le prestazioni delle imprese nelle diverse arie geografiche; 
il Networking: il consumatore può condividere le esperienze reali di consumo, senza doversi limitare ed affidare alle esperienze promesse dalle imprese;
le Nuove esperienze di sperimentazione: il consumatore si impegna nello sviluppo di prodotti e nella loro condivisione;
l'Attivismo: il consumatore è più propenso a fornire giudizi e feedback riguardo prodotti e servizi.


Tali opportunità hanno avuto evidenti conseguenze sui processi di business: basti pensare che grazie al networking il consumatore finisce col  basarsi, per le proprie valutazioni e scelte d'acquisto, sulle opinioni degli altri consumatori condivise sulle piattaforme online.
Per le imprese i consumatori-produttori possono dunque rappresentare un (talvolta inconsapevole) alleato: non più un mero target, ma un potenziale partner. Strumenti utili a questo fine, sono appunto i Social Media, utilizzati dalle aziende per "reclutare" numerosi co-produttori. Un esempio è quello della Frito-Lay: a partire dal 2007 Frito-Lay ha indetto il concorso "Crash the Super Bowl", con cui invita i consumatori a creare uno spot per le proprie patatine (Doritos) da caricare su YouTube (qui una selezione) e da sottoporre a votazione tramite il sito aziendale. La co-creazione dei contenuti pubblicitari ha consentito all'azienda di accrescere il livello di rilevanza per i consumatori, oltre ad aver soddisfatto il desiderio del pubblico di esprimersi riguardo le proprie marche.

Non a caso, come evidenziato in una ricerca svolta da Forrester Research (Stokes, 2012), il 59% dei consumatori online sono attivi sui siti di social networking almeno una volta a settimana ed almeno un terzo di essi è fan di un'impresa o di un brand su una piattaforma, ed il 92% dei leader di marketing ritiene che i social media abbiano cambiato l'interazione tra i consumatori e le marche. Tuttavia, non tutte le imprese che hanno intrapreso iniziative di tipo comunitario hanno ottenuto successo. Uno dei principali ostacoli all'efficacia di forme di online cocreation è il mancato conseguimento del giusto impegno da parte dei membri della comunità: è indiscutibile che il livelli di partecipazione dei consumatori siano fortemente differenziati. [Rossi, 2014]

Ma un aspetto fondamentale da valutare, come puntualizzato da Cugno (2014), è che le comunità di consumo producono collaborazioni volontarie con le imprese, che non si basano su strumenti convenzionali (motivazioni razionali ed incentivi economici), ma su percezioni, sentimenti, simboli: questi approcci alternativi sono destinati a mettere in discussione uno dei capisaldi del funzionamento delle società capitalistiche, ovvero il riconoscimento e la tutela della proprietà intellettuale. Spesso, infatti, nei processi di open innovation gli autori non si riservano il diritto di sfruttamento dell'opera, e rinunciano ai proventi che ne deriverebbero. Come accade nel caso dei Contest, la motivazione è spesso solo quella di mettere in gioco le proprie abilità.

Questo tipo di shared economy porta inevitabilmente a due posizioni ambivalenti: una prima visione la considera una modalità di emancipazione del consumatore dalle imprese, una rivalutazione del consumatore, una seconda la interpreta invece come un modo per sfruttare il plusvalore.

Quest'ultima posizione ritiene il processo di co-creazione del valore e dei prodotti da parte dei consumatori come un'integrazione di lavoro creativo in qualità di risorsa non retribuita e talvolta non riconosciuta. Adottare strategie di lancio di contest e concorsi permette alle imprese di appropriarsi in maniera gratuita dei contenuti generati dai consumatori e quindi di ricevere prestazioni e contenuti pubblicitari senza retribuirne il lavoro. Quello che può sembrare un tentativo di sollecitamento alla partecipazione per gli utenti, il pubblico e i fruitori di beni e servizi, è in realtà spesso un modo non solo di ricercare pubblicità, ma anche di elusione dei costi pubblicitari. Questa considerazione rientra appieno nella teoria del terzo lavoro ipotizzata da Toffler (2006), che considerava con questa formula un lavoro alternativo a quello retribuito e a quello "privato" rivolto alla cura della persona e della famiglia. Le aziende sfruttano questo tipo di lavoro e le spinte partecipative, direzionandole affinché assecondino i propri fini.


Un ulteriore interrogativo da aggiungere alla riflessione, è quello riguardante l'affidabilità e la veridicità delle esperienze di consumo condivise dagli altri consumatori. Parallela all'illusione di autonomia del giudizio, infatti, sussistono varie tipologie di controllo trasversale del pensiero, che dimostrano quanto il consumatore non sia in realtà tanto critico quanto lo si considera oggi, o che comunque limitano la diffusione di certe opinioni e ne manipolino, falsifichino e diffondano altre: le aziende possono creare vincoli legali o tecnici, con l'appoggio dei proprietari delle piattaforme possono restringere le modalità di circolazione dei messaggi ecc. (Jenkins, 2013), così come possono creare falsi account con cui fingersi anonimi consumatori. È il caso del portale web TripAdvisor, che nel 2014 ha ottenuto una multa di 500mila euro da parte dell'Antitrust a causa delle recensioni falsificate.

 La capacità critica del consumatore viene messa in dubbio anche nel momento in cui esso più che un prosumer diviene un fan del marchio con cui "collabora", riconoscendo al marchio una fedeltà e fiducia che vanno oltre la ragione (Roberts, 2005): spesso non si compra un prodotto in quanto tale, ma il valore simbolico che lo accompagna.

C'è infine da considerare che il consumatore non è poi così tanto produttivo come si autodefinisce e viene definito: bisogna ricordare che le sue sono soltanto scelte limitate alle possibilità rigidamente predefinite dalle aziende stesse. 

Tutto ciò porta a considerare il prosumerismo in maniera contraddittoria, guardando da un lato il maggior poter del consumatore, e dall'altro il suo perdurante assoggettamento alla marca.

Fonti:
"Il management della virtualità" in Vicari S., (a cura di), Economia della Virtualità, Egea, Milano, 2001.
La governance dei consumi. Presenza e progettualità della socialità della società civile nel mercato, Cugno, 2014.
Marketing collaborativo e online value co-creation: l'impresa e la sfida del consumatore produttivo, Rossi, 2014.
La marca resiliente. iThink different e i prosumer Apple, nella rivista Sociologia del lavoro, n. 132/2013, Degli Espositi.  
La rivoluzione del benessere, Toffler, 2006.
Lovemarks. Il futuro oltre i breands, Roberts, 2005.

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