venerdì 6 aprile 2018

"Il Filtro. Quello che internet ci nasconde" di Eli Pariser

È importante chiedersi quanto sia fondamentale, in un’era di massima digitalizzazione come quella in cui viviamo, l’immagine che internet costruisce di noi, difatti personalizzazione non vuol dire soltanto che nella rete tutti ormai riceviamo pubblicità calibrate sui nostri gusti e sui nostri interessi, vuol dire anche che tutti i principali programmi che utilizziamo, raccolgono dati su di noi e si costruiscono un'immagine di noi, per poi usarla, a nostra insaputa, per vari fini.
Ciò che risalta all'occhio all'inizio del quarto capitolo del libro è la frase di Gordon Bell  : “Credo che un personal computer dovrebbe fare proprio questo. Cogliere tutta la nostra vita.”            
Può realmente una macchina cogliere a pieno l’immensa frammentarietà di cui si compone l’identità, nonché la vita, di un individuo?  Ed è proprio su questa domanda che si basa la riflessione di Pariser nel corso del capitolo. 
La riflessione parte da una dichiarazione fatta dal fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, ovvero “Tu hai una sola identità”. Si tratta di una falsa affermazione, in quanto si tende ad attribuire il comportamento degli altri alle loro caratteristiche individuali e alla loro personalità piuttosto che alla situazione in cui si trovano. Interessante è un esperimento riportato che dimostra come perfino le nostre caratteristiche più radicate, per esempio la ripugnanza a fare del male agli altri, possano essere modificate dal contesto. Un pioniere della psicologia come Milgram lo ha dimostrato con il famoso esperimento condotto negli anni sessanta, in cui convinse delle persone perbene a inviare quella che credevano una scossa elettrica ad altri soggetti solo perché glielo aveva chiesto un medico.  
Non abbiamo una sola ed esclusiva identità, anzi è proprio la duttilità dell’io che ci consente di affrontare situazioni sociali che sarebbero intollerabili se ci comportassimo sempre allo stesso modo. Molto interessante è scoprire come tutto questo gli inserzionisti lo abbiano scoperto da molto tempo, nel loro gergo si chiama “day-parting” (suddivisione della giornata), ed è il motivo per cui la radio non trasmette pubblicità ad esempio di birra mentre la gente sta andando al lavoro in macchina, poiché alle otto di mattina e alle otto di sera le persone hanno necessità e desideri diversi.
Risulta evidente che non solo non possediamo un’unica identità, ma oltre ad averne di più in base ai contesti in cui ci immergiamo, la nostra identità totale, che risulta essere un insieme sommaria di micro identità, muta nel corso tempo. Il modo in cui ci comportiamo è sempre un compromesso tra il nostro io futuro e quello attuale (ad esempio, in futuro vorremmo essere magri, ma adesso vogliamo quella barretta di cioccolato). Poiché Zuckerberg ritiene che abbiamo un’unica identità, e invece non è cosi, Facebook non riuscirà a personalizzare perfettamente il nostro ambiente informativo, difatti la bolla dei filtri, poiché si basa sull’idea di un’unica identità, non terrà conto che a cliccare è esclusivamente il nostro io presente, costruendo su quelle informazioni un’identità che sarà statica e che quindi non sarà mai al passo con quella che è la nostra identità reale, formulando una teoria sbagliata. A sostegno di ciò, Pariser discute anche sulla diversità della costruzione della nostra identità in base alla piattaforma che stiamo utilizzando, in quanto vi è una differenza tra il nostro io per Google e il nostro io per Facebook. I filtri di Google, per esempio, per capire quello che ci piace o meno, si basano essenzialmente sulla cronologia e su quello che clicchiamo, i cosiddetti “segnali clic”, si tratta di scelte che facciamo solitamente in privato, se pensassimo che qualcuno vede quello che cerchiamo, ci comporteremmo diversamente, ma è proprio quel comportamento che determina quali contenuti vedremo in futuro. La base su cui invece parte la personalizzazione di Facebook è del tutto diversa, sebbene registri ugualmente i clic, per stabilire la nostra identità punta essenzialmente su quello che condividiamo e sulle persone con cui interagiamo. Facebook in sostanza, si basa di più sui nostri desideri e sulle nostre aspirazioni, ci presenta come  vorremmo essere visti dagli altri, dunque l’io di Facebook assomiglia di più a un’esibizione. Ad ogni modo, sono  entrambe rappresentazioni sbagliate di chi siamo, anche perché non esiste alcun insieme di dati in grado di descriverci completamente.  Dunque, è indubbiamente vero che i dati che diffondiamo continuamente su internet non potranno mai descrivere a pieno la nostra identità, ma il problema alla base dell’intera questione è che anche i media influenzano la nostra identità.                                                  
In sostanza, la nostra identità condiziona i media e a loro volta i media condizionano le nostre convinzioni e i nostri interessi. Clicchiamo su un link, il che significa che l’argomento ci interessa, di conseguenza è probabile che in futuro leggeremo articoli su quel tema e questo a sua volta ci condiziona. Restiamo intrappolati nel circolo vizioso dell’io, di cui parla Pariser, e se la nostra identità è stata travisata iniziano a verificarsi strani fenomeni. In questo modo, la rete, si crea un'immagine di noi e ce la ripropone quotidianamente, finendo per rinchiuderci in una "bolla", la bolla dei filtri. Più velocemente il sistema impara da noi, più è probabile che rimaniamo intrappolati in una identità statica, in cui un’azione iniziale, indica che siamo persone a cui piace un determinato genere di cose e questo, a sua volta, ci porta a ricevere ulteriori informazioni sull’argomento, sulle quali poi saremo noi stessi inclini a cliccare perché ormai ci sarà  diventato familiare.                        
Questo comporta una sorta di determinismo dell’informazione, in cui i clic del nostro passato decidono interamente il nostro futuro, in altre parole se non cancelliamo la nostra storia web, siamo destinati a vederla ripetersi.

Francesca Esposito

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